di Alice Fossati.
Laureata in filosofia all’Università degli Studi di Torino.
Studente II anno del master triennale in counseling filosofico di Torino (SSCF)
Ieri ho visto un film di Tarkovskij. Due ore e zero sei di mattone russo. Specifico e non trascuro quei sei minuti finali perché l’ultimo quarto d’ora è stato una prova di resistenza niente male. Camera fissa sul protagonista che cammina avanti e indietro con una candela accesa all’interno di una vasca termale. Vorrei poter dire che l’ho guardato perché sto approfittando del periodo per approfondire la cinematografia sovietica, ma no. La verità è che in questi giorni sto leggendo un romanzo che mi sta lacerando, uno di quelli che io chiamo “libri della rottura”. Una delle protagoniste, una cocainomane, cinefila, elenca i registi del suo cuore. C’è il nostro Tarkovskij tra questi. Così ho deciso di affrontarlo e l’ho detto preventivamente a un amico. Al mio: “Oggi guarderò un Tarkovskij” mi ha risposto: “Se arrivi in fondo a un Tarkovskij ti faccio venti minuti di applausi”. Sono molto competitiva quando si parla di questo genere di cose. Volevo sentire le sue mani battere da casa sua, che è lontana. Forse troppo lontana. Un po’ alla cieca ho scelto all’interno della sua produzione questo film, Nostalghia, perché la trama mi sembrava in qualche modo attraente. C’è la figura di un uomo, considerato socialmente pazzo perché rinchiusosi con l’intera famiglia per sette anni in casa per timore della fine del mondo. In una delle scene finali pronuncia un monologo che mi ha spaccato qualcosa all’interno. Ci ho pensato per tutto il giorno. Credo parli in più lingue, a più dimensioni, penso abbia toccato una corda del mio cuore già tesa di per sè. Parla dell’alienazione sociale, della necessità di un risveglio di coscienza, cerca di alimentare il desiderio, lo slancio vitale. Invoca l’avvento di qualcuno che gridi alla possibilità di costruire delle piramidi, specificando quanto non sia necessario vengano poi di fatto erette ma semplicemente che si “alimenti il desiderio” in questo modo. Il protagonista, Andrej Gorčakov, è l’unico a rimanere affascinato dalla sua figura, tanto da dimostrare interesse per i suoi discorsi. È un poeta russo in Italia che con costanti flashback ricorda la moglie e la famiglia e pare provi una sensazione di nostalgia. Quello che mi ha colpito – e non so razionalmente fornire prove di questa suggestione – è che ho l’impressione che si senta più vicino a loro nella lontananza. Come se quei ricordi fossero contornati da un velo mistico e onirico che li rende appunto irreali, idealizzati.
Trovo che questa lontananza dagli affetti per quanto sofferta sia terapeutica. Ogni cosa, ogni rapporto sta riacquistando il giusto valore. Nella solitudine si ha l’irripetibile occasione per guardare all’interno di sé, alla realtà circostante, alle proprie relazioni e al mondo nella sua globalità. Il tempo si dilata, appare quasi ciclico, sembra invaderci e prendere consistenza. Ci troviamo tutti immersi in una dimensione estraniante. Si respira aria di tensione mista a liberazione, di paura e ardore, di vicinanza nella separazione. È un momento ossimorico che contiene in sé moltissime sfide personali e collettive. In questo periodo ci troviamo a vivere in una dimensione surreale, nel senso letterale di al di fuori della realtà, fuori dal tempo, che paradossalmente ci dà modo di calarci ancor di più nel reale, di sviscerarlo, di sentirlo a livello emotivo e di porre in discussione schemi, principi e valori che guidano la nostra azione. Un periodo di interruzione e dissonanza, momento stonato all’interno del continuo brusio della nostra quotidianità, che spesso appare più deleteria del previsto perché lacera ma immobilizza. Difficile trovare la forza di rivolta quando si è vittima di uno stillicidio, più facile in un momento di crisi pandemica.
Ho l’impressione che in questi giorni di assoluta incertezza ognuno di noi stia compiendo quell’analisi del proprio progetto esistenziale. Da una parte si ha un’avida fame di semplici gesti quotidiani, con l’augurio di un ritorno ad una condizione di normalità e il recupero di ogni propria abitudine precedente. Dall’altra parte si progetta un cambiamento dovuto all’esperienza dell’effimerità della vita. È un’occasione per meditare e in questo modo per conquistare un senso dell’esistenza (propria e generale) più profondo. Mi pare che questo crollo di certezze, questa sperimentazione del pericolo e della propria vulnerabilità possa portare a una messa in discussione delle proprie abitudini. È possibile vedere nell’apocalisse un’opportunità di rinascita. Credo che si possa sfruttare al meglio questa condizione per analizzare eventuali aspetti contrastanti della propria vita e, eventualmente, iniziare a immaginare come ricostruire e reinventare una quotidianità rinnovata, più autentica e corrispondente ai propri valori. È un buon esercizio per conservare la speranza, per rimanere radicati al presente e contemporaneamente essere proiettati al futuro.
Qualche giorno fa mi sono commossa di fronte a una pagina di Camus, che nell’Uomo in rivolta scrive: “L’essere che deve morire splende almeno prima di dissolversi, e questo splendore costituisce la sua giustificazione”. Nel confronto con il limite, nella percezione concreta della morte, l’uomo si rende conto della limitatezza ed è spinto a ricercare ed esprimere la propria essenza, la propria verità.
C’è stato un momento in cui ho provato paura. Mi sono immersa nella mia precarietà, l’ho vissuta in senso fisico. Mi sono sentita stretta. Ho avuto paura di ammalarmi. Mi sono ritrovata a pensare di non voler morire. Non credo sia del tutto scontato. D’accordo che per natura siamo animati da una sorta di istinto di conservazione o, quanto meno, di fuga dal dolore. Non è stato solo questo, tuttavia. Non è stato un pensiero di fuga, ma piuttosto di volontà di espressione. Ho pensato di avere ancora tanto da fare, tanto da dire, tanto da scrivere. Vorrei per lo meno avere occasione di continuare a ricercarmi, a fallire, a cadere ma soprattutto a esternare ciò che ho all’interno. Ho pensato che non potesse essere finita qui. Non so se si tratti di nichilismo attivo, ma quando tutto perde di senso e diviene instabile, si ha la possibilità di stringersi alla parte di sé che si vuole vedere esplodere nel mondo. Sono particolarmente legata al termine ‘coraggio’ nel suo significato etimologico ‘ho cuore’ (cor habeo): ho spirito, tenacia, forza propulsiva interiore.
Ho l’impressione che in questi giorni la paura sia bifronte. Da un lato si teme per gli altri, per l’umanità in generale e per i propri cari in particolare, dall’altro si teme per la propria incolumità. Credo che la prima sia quella meno gestibile. Il timore per la perdita è connaturato nell’essenza dell’amore. Ho paura perché amo. Temo anche io. Se mi sveglio di notte è finita, la notte è terribile, di notte le mie insicurezze diventano grandi come me, occupano uno spazio nella stanza e mi sovrastano. Ma siamo qui, siamo vivi. Spesso in momenti difficili da sembrare insuperabili immagino l’arrivo della bonaccia, il momento in cui riguarderò al passato e potrò dire con soddisfazione: “l’ho affrontato e ne sono uscita vincitrice”. Penso che questo confronto con il limite e con la paura sia utile, in qualche maniera, se sfruttato al meglio.
Qualche giorno fa ho letto un racconto di Kafka, Essere infelici. Contiene un meraviglioso dialogo tra il protagonista, terrorizzato per l’incontro con un bambino dall’aspetto fantasmatico e inquietante, e un suo inquilino.
“Cosa debbo fare?” chiesi. “Ho appena avuto un fantasma in camera.” “Lo dice con lo scontento di chi ha provato un capello nella minestra.” “Lei scherza. Ma si ricordi, dunque: un fantasma è un fantasma.” “Verissimo. Ma come si fa, quando non si crede ai fantasmi?”
“Perché, lei pensa forse che io creda ai fantasmi? Ma a che mi serve questo non crede?” “Semplicissimo. Non deve più avere paura, quando un fantasma davvero viene da lei.” “Sì, ma è una paura secondaria. Quella vera è la paura della causa dell’apparizione. E questa paura rimane. Questa paura l’ho in me in maniera addirittura grandiosa”.
Questo è un ottimo momento per chiedersi di che cosa si ha paura. È un’occasione per riscoprire la filosofia nella sua valenza pratica, non solo come mera teoria ma come teoria che si fa prassi. Si può anticipare la causa della propria paura, affrontarla e sostenerla per poi contenerla in sé con consapevolezza ma lasciarla contemporaneamente andare, lasciarla fluire.
Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera da parte di una donna detenuta in carcere. Ha un valore incommensurabile.
Mi hanno privato della mia libertà. No, mi sono privata della mia libertà, vuoi per ira, vuoi per cupidigia, o per odio verso me stessa. Tutto questo mi ha portato qui in questo posto dove ci aggiriamo come in un girone dell’inferno delle Divina Commedia, senza amore, senza potere decisionale, inermi e statiche. Riflettendo però loro hanno chiuso il mio corpo, non il mio spirito e il mio intelletto. Allora sono libera! Libera di viaggiare attraverso un libro, libera di strappare un sorriso a una compagna. Allora sono viva. Perché l’amore è la forza che fa muovere il mondo. Amati e ama chi ti circonda, solo così potrai superare questa prova che ti sei inflitta con la tua stupidità, ne potrai uscire più forte e determinata che mai, conscia delle tue fragilità, ma anche della tua determinazione. Perciò, amica mia, possono incatenare il tuo corpo, ma non il tuo spirito e tu con esso potrai essere libera e lo sarai finché sarai padrona dei tuoi sentimenti.
Siamo costretti nelle nostre case ma siamo liberi di viaggiare con la mente, liberi di meditare, di riscoprirci, di approfondire le nostre conoscenze e, soprattutto, di riscoprirci umani e dimostrare la nostra solidarietà. La sofferenza ci rende empatici, fa sorgere un meraviglioso spirito di comunione. Si può lottare per trasformare una tragedia in un momento di rinascita.
Sono particolarmente legata ad una canzone di Tom Waits, Christmas card from a hooker in Minneapolis. Il testo parla di una detenuta che scrive una lettera per Natale fingendosi finalmente felice e sposata, fingendo di aver chiuso col passato di droga, alcool e prostituzione, per poi confessare nell’ultima strofa di aver mentito e di trovarsi in realtà in arresto alla ricerca di soldi per pagare un avvocato. Scrive di un mondo costruito ad arte con una ricchezza di particolari tale che nessuno potrebbe pensare vi si stia solo proiettando con l’immaginazione mentre molto probabilmente si ritrova in una stanza sola, quando tutto ciò che le è rimasto è il bambino di cui è incinta. Dalla prima volta in cui l’ho ascoltata sono animata dalla convinzione che, al di fuori del testo, una volta scontata la sua pena, abbia portato a termine quel progetto sognato, o comunque abbia iniziato a lottare per realizzarlo. Questo dovremmo fare ora: anticipare con l’immaginazione in vista di un futuro ricco di potenzialità.