di Marco Maffeis
Direttore Servizi residenziali e semi-residenziali per anziani della Comunità comprensoriale Oltradige-Bassa atesina
Laureato in Scienze Politiche Internazionali
Studente del II anno Master in Counseling Filosofico ISFiPP – Torino –
“L’universo trova spazio dentro me… le mie mani non tremano più…”, canta Battisti. “Che anno è, che giorno è… i giardini di marzo si vestono di nuovi colori”. “In fondo all’anima, cieli immensi e immensi amori”. “Fiumi azzurri e colline e praterie, dove corrono dolcissime le mie malinconie”.
L’universo trova spazio dentro me.
Al rientro dal lavoro, i miei soliti 40 minuti di auto. Per una bellissima strada di montagna, panoramica, verde, profumata di primavera ormai avanzata. Riascolto Lucio e faccio mia questa splendida melodia. Ascoltandola, mi sembra di leggere nei pensieri non solo miei, ma di alcuni ospiti della Rsa che dirigo, nei pressi di Bolzano. Solitamente un’ottantina di anime ben accudite da un’ottantina di operatori socio-sanitari ed amministrativi.
Penso al mio universo interiore, e a quello degli ospiti. Persone umane di cui ci prendiamo cura, giorno per giorno, in tempo di COVID 19. Un campionario di umanità che rende tutti uguali in questa corsa contro il tempo per sconfiggere la malattia.
Guardando fuori dal finestrino, mentre guido, penso alla giornata, l’ennesima lunghissima giornata, passata in struttura. Penso alle mie spalle, doloranti. Perché, alla sera, questo maledetto virus te lo senti dentro, nelle ossa. Per fortuna niente febbre, sono asintomatico e negativo al tampone. Eppure c’è. Sarà la stanchezza, dici a te stesso. O l’immagine della Signora Luciana. Sguardo impaurito, pronta a lasciare la Rsa per andare all’Ospedale. Il suo ultimo viaggio. O il pianto a dirotto della figlia del Sig. Romolo, in video chiamata. Mentre grida al mondo il suo dolore perché il papà non la riconosce più.
Tutti gli ospiti della casa sono rinchiusi nella loro stanza. Confinati in uno spazio di 20 m quadrati, anche in due. Da tre settimane ormai. Di questi tempi, per loro la libertà è concetto ancora più astratto del solito. L’autodisciplina, richiesta a tutti per consentire il ritorno alla libertà di ognuno, si gioca in quei maledetti 20 metri quadrati.
È di oggi la notizia di altri tre collaboratori colpiti. Questa volta è toccato alla cucina. E siamo a 23. Si è aggiunto anche un ospite. E sono 18. Oltre agli ospiti, sei, che ci hanno già lasciato.
Sembra il Vietnam. Apocalipse now. Questo avanzare nella foresta, l’imboscata dietro l’angolo. COVID 19, una volta entrato in struttura, si diffonde ampiamente e velocemente. Non lo vedi ma c’è. Sulle cose, sulle persone, sul pavimento. Sulle tute che vestiamo. Dentro queste tute colorate di azzurro o bianco sgargiante sembriamo degli zombi vaganti. Professionali fino al midollo in questa fase di emergenza sanitaria, serviamo la cena in stanza, agli ospiti “confinati”. I loro sguardi ti toccano nel profondo. C’è chi ti implora di poter tornare “al primo piano”. Quando potrò tornare al primo piano, nella mia stanza, dice l’ex Sindaco, 98enne, in lacrime.
Dopo i trasferimenti forzosi attuati per raccogliere gli ospiti positivi al test in un unico nucleo abitativo, tante persone hanno dovuto lasciare casa propria: la loro stanza. Le loro cose. Raccolte nei sacchi neri, ordinatamente, all’ingresso della così detta “zona pulita”. Anche loro, gli abiti, i libri, le immagini dei nipoti, della tanto amata Juventus, attendono di poter tornare a casa. E sembrano parlarti.
Questa sera, nel portare un piccolo omaggio pasquale ad ogni ospite, mi sono imbattuto in 50 e più sguardi. C’è chi ancora riesce a parlare. C’è chi parla con gli occhi. C’è chi non parla più. Avvolto nel proprio lenzuolo, in un sonno che dura ormai da tre settimane. Occhi socchiusi. Persi nel vuoto.
Mentre fuori dalle finestre i giardini di marzo sono ormai fioriti, vestiti dei loro colori, qualche ospite ha ancora il piacere di ammirarli. Si intravede ancora la bellezza e l’armonia che, nonostante tutto, ci circonda. Intorno a loro e dentro di loro. Il loro sorriso ci scalda il cuore e ci ricorda la nostra melodia di senso. Che cantiamo ogni giorno, venendo al lavoro, e che fonda il nostro essere. C’è ancora chi riesce ad apprezzare la
gustosa minestra della cena. Che ti saluta riconoscente. Che trasmette calma interiore, quiete. Davanti al suo crocefisso. O alla foto dei nipotini.
Mi chiedo come poter essere di aiuto a chi dimostra irrequietezza, malessere, tristezza. Avendone ben d’onde. Magari avendo perso da anni l’uso della parola, o mantenendola solo in parte. Avendo perso le forze, fiaccato dal virus, dall’età, dalle malattie.
Come indicare la via filosofica al benessere di anime profondamente turbate dagli acciacchi della non autosufficienza e da questo spaventoso evento imprevisto? Come smentire la profezia della “fine annunciata” da tutti i telegiornali e giornali, che raccontano delle stragi di anziani nelle Rsa? Quale ricetta di benessere e calma interiore, quale progetto di vita al tempo del Covid, rinchiusi in 15 metri quadrati? Come venire in aiuto di queste persone, dare loro ancora una speranza, nelle difficili condizioni di pericolo mortale in cui versano? Quale maieutica impiegare? Quale dialettica?
Non possono che tornarmi alla mente gli insegnamenti stoici: dopo un approccio empatico, di comprensione e solidarietà per la tristezza del momento, aiutare a prendere coscienza dell’impossibilità di evitare un male inevitabile. Che ormai abita in struttura. Che va cacciato con tutte le armi possibili ma che dobbiamo accettare. Perché ormai c’è.
Dopo averla pienamente accolta, cercare di scacciare la rabbia per la presenza di Covid19. Presenza ingombrante, forse un tempo evitabile, ma che ormai non dipende più da noi. E concentrarsi su ciò che ancora dipende da noi: la protezione individuale dal contagio, attraverso l’uso della mascherina e la permanenza nella propria stanza.
Aiutare la persona a padroneggiare il proprio “discorso interno”, a condurre con ordine i propri pensieri per approdare ad una trasformazione della sua rappresentazione del mondo. Aiutarla a concentrarsi sul momento presente, per riuscire a distinguere ciò che dipende da lei da ciò che non dipende da lei. Senza ammettere nel pensiero nulla che sia inammissibile.
Aiutarla a tornare a gioire, pensando a quanto sarà bello poter tornare all’aperto, in giardino, questa estate. Riportando alla memoria i bei momenti trascorsi all’aperto, l’estate scorsa; momenti che certamente ritorneranno. Cercando di diminuire il dolore per la situazione presente, provando a vedere il lato buono in quello che è successo: l’aria più pulita, la possibilità che i nipotini vivano in un mondo migliore, più consapevole dei danni che l’uomo sta causando sulla terra. Avere tempo per pensare a cosa dire di importante ai propri cari, quando sarà il momento di rivederli. Accettando comunque quello che accadrà. Magari con un tocco di epicureismo, esprimendo gratitudine profonda verso la natura e la vita che sanno offrirci incessantemente piacere e gioia. Come un buon piatto di spaghetti gustata guardando fuori dalla finestra.
Nel mentre passo in rassegna i miei pensieri, sto arrivando a casa. Mi tornano alla mente le anime che hanno chiuso gli occhi per sempre. Avvolti in quei lenzuoli impregnati di disinfettante. Senza alcuna manicure, senza gli abiti della domenica. Le salme, di solito, sono sempre eleganti. Nella loro maestosa dignità. Di questi tempi, nemmeno questo è più consentito. Anche i morti hanno perso la loro dignità.