Cominciai a rendermi conto che io ero abitato, che avevo dentro qualcuno. Ero abitato da una bocca che parlava. Avevo un’arma, uno strumento incredibile a disposizione, che era questo demone o demonio o angelo che avevo dentro, questo jinn; presenza misteriosa che avevo dentro, che mi dettava.
Carlo Coccioli
L’idea dell’ispirazione del poeta da parte di un’entità divina è presente fin dai poemi epici della Grecia arcaica. È Calliope, Bella voce, che Omero invoca perché canti attraverso di lui l’ira di Achille e le peripezie di Odisseo, l’uomo dal multiforme ingegno. Il poeta risulta mezzo, strumento; mero organon, attraverso cui fluisce e si estrinseca un messaggio di verità.
Fu Esiodo nella Teogonia a rendere onore alle Muse attraverso una dettagliata genealogia. Occupando regno intermedio tra cielo e terra, esse nacquero da Zeus sull’Olimpo, ma si spinsero sulla terra mortale a contatto con gli uomini. Esseri ambigui, in grado di mentire e dire il vero, allietano con le loro danze e il loro canto la dimora degli dei, e, allo stesso tempo, ispirano i pastori, rendendoli a loro volta cantori di ciò che fu. È così che Esiodo viene iniziato all’arte del “canto bello” (καλή ἀοιδή in Teogonia, vv. 22) che gli consente di allietare gli ascoltatori e di educarli al vero. Figlie di Mnemosyne, personificazione della Memoria, concedono eternità al passato attraverso il verbo e la testimonianza.
Nello Ione, Platone considera la poesia frutto di una fuoriuscita estatica da sé. Seppur, a differenza di Esiodo, non più portatore di verità accessibile unicamente attraverso la strada della filosofia, il cantore è “cosa lieve, alata e sacra” (Ione, 533 B-C), oggetto di rapimento divino, che, perdute le sue facoltà meramente umane, acquista ruolo di vate. Concezione simile è presente in un frammento di Democrito che dipinge un’immagine del poeta come toccato dal soffio divino, in grado di generare un “kosmos” (ἑτεκήνατο κόσμον in Democrito, fr. 68 B21), un universo ordinato di versi. Pare sottendere un potere trasfigurativo della parola, che detiene la facoltà di modellare e creare, traendo dal mondo ordinario i propri elementi ma combinandoli insieme composti innovativi concedendo loro nuova vita.
In ogni epoca, attraverso il corso del tempo, l’arte è prodotto di spirito e cultura. Artifex è l’artista, l’artigiano e il fabbro, colui che plasma la materia infondendo in essa afflato vitale. Il prodotto artistico diviene, in questo senso, soffio incarnato. Si può pensare, con gli antichi, che provenga da talento ispirato, da un intervento superiore, che trascende l’umano. Si può considerare esternazione di una realtà spirituale che pervade l’umano, della coscienza che in sé, si fa per sé, per riconoscersi nel proprio prodotto. Il demone interiore di cui parla Coccioli, questo jinn che invita a parlare diviene quindi figura di un sovrappiù, di un aspetto quasi miracoloso che appartiene ad alcuni pre-scelti, oppure metafora di una personale qualità, tutta umana, troppo umana, talmente umana da risultare inspiegabile.
Dovevo solamente scegliere la strada per farlo parlare. Il tema mi veniva imposto dal mio essere, dal mio sentirmi diverso, sentirmi estraneo agli altri, il mio sentirmi in esilio.
Carlo Coccioli
Sono parole, quelle di Coccioli, che riecheggiano l’esilio nietzschiano del creatore, di chi si impegna nel mondo e risponde alla propria vocazione interiore. Parole che rimandano all’amara solitudine dell’Oltreuomo, impasto d’amore e odio, sede di emozioni violente, passione e disprezzo ma, al tempo stesso, di nobili sentimenti e forza propulsiva.
O solitario, tu vai su la via dell’amante; tu ami te stesso, e per ciò ti disprezzi, così come non sa disprezzare se non quegli che ama.
L’amante vuol creare perchè disprezza! Che sa dell’amore colui che non s’è mai trovato co-stretto a disprezzare a punto perchè amava?
Col tuo amore ripara nella tua solitudine, e abbi teco il desiderio di creare; più tardi la giustizia ti seguirà zoppicando.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra
Sono parole che rimandano alla caparbietà dell’uomo in rivolta di Camus, che si vota alla solitudine, alla sofferenza e offre se stesso a una causa superiore. Contengono la forza di chi si apre al rischio dell’incomprensione e del fraintendimento.
Camus parla di rivolta metafisica che si storicizza anche attraverso l’arte, che diviene una forma di impegno nel reale, esposizione di una parte di sé che viene resa vulnerabile, vulnerabile perché esternata.
L’arte è anch’essa quel movimento che a un tempo esalta e nega. “Nessun artista tollera il reale”, dice Nietzsche. È vero; ma nessun artista può fare a meno del reale. La creazione è esigenza di unità e rifiuto del mondo.
Albert Camus, L’uomo in rivolta
L’artista intrattiene dunque un rapporto ambivalente con la realtà sociale. Vi rimane ancorato pur non accettandola, rifiuta ma non rinuncia.
Non c’è opera che non si ritorca contro l’autore: il poema annienterà il poeta, il sistema il filosofo, l’avvenimento l’uomo d’azione. Colui che, rispondendo alla propria vocazione e portandola a compimento, si agita dentro la storia, è causa della propria rovina.
E. M. Cioran, La tentazione di esistere
L’opera apre al rischio. La produzione artistico-letteraria, come azione concreta all’interno del reale, è sacrificio. È propria, d’altra parte, degli animi alti, che, attraverso la sofferenza acquistano quella che Cioran chiama “sensazione d’esistere”.
Rifiutando l’omologazione e, di conseguenza, la perdita di sé, Carlo Coccioli è la personificazione dell’artista di Cioran, che salvaguarda la propria irriducibilità.